
Fu poi Aristotele che andò contro questo pensiero mettendo in relazione lo spazio e la materia affermando che essi esistono in relazione all'altro. Concepì infatti lo spazio come limite estremo dell'estensione, creato dalla materia stessa e come contenitore immobile di un universo finito, eterno e pieno.
Durante il Rinascimento e l'età moderna si mise in dubbio Aristotele. Furono tanti i pensatori a definire lo spazio come ente autonomo, pre-esistente, omogeneo, che accoglie la materia. Ad esempio, Giordano Bruno definì lo spazio come ente infinito, non contenuto ma che tutto contiene e continuo e dedusse l'infinità dei mondi e dell'universo.
Durante la Rivoluzione Scientifica la tesi di Bruno fu riportata alla luce. Newton, al contrario di Galilei, accettò questa definizione considerandolo come unico parametro di misura per studiare i moti e mezzo con cui la forza gravitazionale agisce. Questa definizione fu accettata da gran parte del mondo scientifico ma non da Locke e Barkeley che studiarono lo spazio dal punto di vista gnoseologico e asserendo che esso esiste grazie a delle qualità soggettive e empiriche, negando l'esistenza reale oggettiva dello spazio.
Durante l'Illuminismo Kant concepì lo spazio come forma pura delle intuizioni esterne e quindi come strumento necessario usato dall'intelletto per unificare la molteplicità dei dati empirici, insieme al tempo.
In età contemporanea, infine, fu Einstein a rifiutare la concezione di spazio euclideo e formulare lo spazio-tempo, uno spazio fisico "elastico" che muta in presenza della materia che non è universale ma dipende dai sistemi di riferimento.
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